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venerdì 11 maggio 2012

“La follia e la grazia della Croce. Per me vivere è Cristo, il morire un guadagno” (Fil 1,21)


“Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.

Il tema della Croce è uno dei più presenti nelle lettere di San Paolo, probabilmente perché ne ha fatto esperienza nella propria carne. Infatti, l’incontro con Gesù sulla via di Damasco è stato molto esigente per lui e ha prodotto una profonda lacerazione nella sua persona. Lui stesso dice che dopo l’incontro con Gesù partì per l’Arabia dove rimase probabilmente da un anno e mezzo a tre anni: un tempo lungo, necessario per rincontrarsi e ristrutturarsi. Di fatto, solo un uomo che aveva fatto un’esperienza così convinta della Legge giudaica, poteva divenire, dopo la sua profonda esperienza del Cristo, l’annunciatore del vangelo.
La Croce è il simbolo del cristianesimo e dei cristiani: l’abbiamo però tanto annacquata che ne abbiamo perso il senso profondo e scandaloso. Ci siamo “abituati” ad essa. Abbiamo dimenticato che i primi cristiani non volevano ricordare la morte in croce di Gesù e che, nell’iconografia, le prime immagini della croce appaiono tardi e tutte incastonate di pietre preziose trasformandola da strumento di morte a segno di gloria.
Paolo ci terrà sempre a sottolineare il fatto che Gesù è morto in croce perché allora come oggi i cristiani pare lo dimentichino spesso. Forse perché contempliamo poco il crocifisso. Facciamo le battaglie perché resti nelle aule scolastiche e nei tribunali e lo appendiamo a collane e lobi d’orecchio, ma del suo messaggio di dono totale che ne abbiamo fatto? Il crocifisso ha reso la croce strada per la vittoria. La morte è stata vinta. La Chiesa è nata da questa realtà e verso essa è incamminata. Ma dov’è la vittoria di oggi? La Chiesa dovrebbe essere una comunità che attende il Risorto per restaurare il regno e nel frattempo dice “venga il tuo regno”. Siccome tarda ad arrivare, allora non aspettiamo più e non pensiamo più al futuro. Noi viviamo troppo spesso come se il regno di Dio fosse già realizzato in pienezza, ma non è così.
Noi dobbiamo vedere oltre...oltre anche la morte...oltre le nostre morti e quelle degli altri...siamo fatti per vedere sempre, oltre. Il buio esiste ma non in maniera permanente. È una sfida che ci provoca ad esercitare la speranza. Il Calvario dura fino alle tre del pomeriggio, poi...c’è la risurrezione.
Interroghiamoci... nel dire “croce” cosa intendiamo? Dolore? Sconfitta? Male? Dono? Rileggiamo la nostra storia personale, nei momenti di difficoltà, quale atteggiamento abbiamo assunto? Abbiamo scelto la fuga? La ribellione o “siamo stati sulla croce”? E’ giusto e umano chiedere che ci vengano risparmiati i passaggi dolorosi, ma una volta attraversati, a cosa ci hanno educato? In quali modi abbiamo “dato” la vita? Lo “stare sulla croce” come ci fa vedere il mondo che ci circonda? Finiamo con il giudicare gli altri “più fortunati” di noi o diventiamo più vicini e compartecipi delle difficoltà altrui?
Rispondiamo...in questi giorni di festa non lasciamoci “distrarre” da tante cose allettanti ma che possono sviarci dal motivo stesso della festa. E’ lui, il Crocifisso, il “Padre di Grazie” che ci interpella, ci provoca e che ci chiede una decisa, seria, matura risposta di fede.  Siamo di fronte al paradosso misterioso che fonda la nostra vita e la nostra fede: un amore che, per essere totale, dona tutto se stesso, si consuma fino al compimento ultimo di esaurire la propria vita. Non lo dobbiamo vivere come un avvenimento traumatico a se stante, “capitato per caso”, provocato dalla paura o dalla ferocia dell’uomo ma è un cammino in divenire, un crescere, che nella storia di Gesù di Nazareth, così come nella nostra, è il percorso obbligato dell’amore. Amore obbediente al Padre che, anche se non in maniera cruenta, chiede a tutti una risposta, che è la spoliazione di se, la fiducia incrollabile in Dio... Qual è la tua...? 

Don Domenico Sòdaro 

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